L’ILLUSIONE DEI PARADISI ARTIFICIALI MI HA FATTO SPROFONDARE IN UN BARATRO INFERNALE.
Vengo da una storia particolare e un po’ difficile, soprattutto perché sono nato in un posto ricco di benessere, però in una famiglia molto povera e disagiata, perché mio padre era stato abbandonato da suo padre, quindi ha trascorso anni in collegio e lì ha fatto esperienze non delle migliori; mentre mia madre è cresciuta in una cristianità antiquata e poco aperta. Così sono nato in questo fuoco, tra un padre violento e alcolizzato e una madre impaurita, con tanta voglia di trovare delle risposte per scappare dalla chiusura che aveva vissuto fino ad allora.
La mia infanzia tra violenza, ospedali e silenzi
I primi sei anni delle mia vita sono stati caratterizzati da ospedali, violenze e tantissimo silenzio. Infatti, quando penso ai primi anni di vita, mi tornano in mente soprattutto la paura e la gran voglia di rimanere in silenzio. Ricordo sempre in maniera tanto viva i rientri di mio padre a casa e l’esercizio che facevo di trattenere il respiro, di cercare di non farmi sentire, perché era violento e in casa sfasciava tutto ogni giorno. Senonché, quando avevo sei anni, mio padre ha avuto un grave incidente ed è rimasto invalido sulla sedia a rotelle, e in quegli anni ha iniziato a far uso di sostanze stupefacenti, prima la morfina ospedaliera e poi l’eroina della strada. Quindi la mia casa è diventata un po’ la “piazza” della Trento di allora.
Trento è una città piccolina dove non ci sono i grandi quartieri come a Roma o a Napoli, per cui i punti di ritrovo erano per lo più degli appartamenti. E io sono cresciuto un pochino come mascotte di questo gruppo della vecchia tossicodipendenza trentina. Mia madre allora si è innamorata di uno di questi uomini e mi ha portato a vivere in alta montagna, in Val di Fassa: un posto meraviglioso, però anche tanto negativo per certi aspetti, con una tendenza alla chiusura, alla non accoglienza, soprattutto nei confronti di chi è già svantaggiato.
Così la mia solitudine e il mio silenzio sono andati ad aumentare sempre più. A circa sette anni il desiderio più grande che avevo nel cuore era di buttare via tutte queste voci che mi accusavano di diversità, di disuguaglianza, di incapacità, di non essere meritevole di amore, amicizia, attenzione. A otto anni, in preda ad un mal di denti, mio padre ebbe la fantastica idea di darmi uno psicofarmaco per farmi passare il dolore. Per la prima volta in otto anni, sono davvero riuscito a fare silenzio! In più l’uomo con cui si era messa mia madre era accusato dell’omicidio della prima moglie. Quindi, in questa solitudine, vivevo anche tutta una serie di paure correlate a quell’assassinio di cui sentivo parlare e sono sempre un po’ cresciuto con l’ombra del pensiero che “oggi sei vivo e domani sei morto”, che la morte non è poi tanto lontana, ma è qualcosa che hai costantemente in casa e che può arrivare da un momento all’altro.
A nove anni ho iniziato a fare uso di sostanze stupefacenti
Inoltre, questo uomo aveva anche problemi di tossicodipendenza; così già a nove anni ho iniziato a far uso di psicofarmaci, poi l’hashish, e a quattordici anni l’eroina. Ho trovato in queste sostanze quel silenzio che cercavo da quando ero ancora più piccolo e ho iniziato ad avere qualche amico, o meglio amici sbandati come me. Ovviamente ero facilitato nella strada della tossicodipendenza avendo la pappa pronta in casa, e sono così diventato un po’ il punto di riferimento per la tossicodipendenza del posto. In questo modo ho iniziato ad avere in mano soldi, ho fatto qualche viaggio, mi sono preso tutta quella parte di vita che pensavo fosse importante e bella.
Una cosa però ha sempre contraddistinto la mia persona e la mia esistenza (negli anni ho capito cos’era): ho sempre avuto una vocina dentro di me che mi diceva che la mia vita era chiamata a qualcosa di diverso. Non lo so come mai era così nitida questa voce. Quanto più erano forti il dolore, la solitudine, quanto più era tagliente la voglia di non esserci, tanto più quella vocina incalzava, incalzava sempre. Nemmeno con il massiccio uso di sostanze, si acquietava dentro di me quella voce che, se da una parte mi diceva che c’era ben altro per cui spendermi, dall’altra però mi accusava di essere inadeguato a vivere.
Mi hanno arrestato, ho fatto l’esperienza del carcere, e in un attimo di lucidità mi hanno proposto di entrare in una comunità.
Nei sette anni successivi, ho iniziato a fare diverse esperienze in comunità terapeutiche ed avevo anche completato un intero programma in una di queste. Ogni due anni, però, appena mi sollecitavano ad assumermi qualche responsabilità in più, ad essere un pochino più capace di ridare qualcosa a chi accoglievo, a fare un lavoro o qualsiasi cosa, io crollavo, iniziavo a sudare, mi si piegavano le ginocchia e riscappavo laddove mi illudevo di trovare un po’ di silenzio e ogni volta riprendevo a drogarmi. Ho sentito per la prima volta che Dio bussava al mio cuore quando, terminato uno dei miei molteplici percorsi in comunità, mi sono messo a servizio in un Centro per malati terminali di AIDS. Mi sembrava che quella voce mi dicesse: “Cavolo, adesso puoi fare qualcosa di diverso nella tua vita!”. E invece nulla, mi sono ritrovato davanti a un dolore più grande di me quando questi ragazzi morivano; e alla morte di Franco, un ragazzo al quale mi ero veramente tanto legato, sono tornato a suonare al solito campanello, ho preso una notevole quantità di droghe, mi sono chiuso nel bagno di casa, per vomitare il dolore che mi attanagliava la vita da più di 20 anni, fino a rimanere paralizzato sul pavimento per diversi giorni.
Nell’inferno della cartiera di Verona Nuovi Orizzonti
Le voci che prima erano magari un pochino meno forti diventarono sempre più assillanti e quella convinzione secondo cui non ero all’altezza diventò veramente un “tumore” che mi mangiava dentro: e così sono arrivato all’ennesima ricaduta. Decisi infatti di mettere assieme più soldi possibile e di andare a vivere in un postaccio, un ghetto isolato dal mondo, la cartiera di Verona, dove non entrava neppure la polizia. Lì c’era tutta la delinquenza possibile, dalla prostituzione agli omicidi, alla vendita di pistole, allo spaccio di eroina e via dicendo.
Sono rimasto in questa cartiera abbandonata per qualche mese; sono collassato una marea di volte e un sacco di volte mi hanno buttato fuori da questo posto quasi esanime, ma l’ambulanza è sempre riuscita a rianimarmi. Finché nell’aprile 2002 una sera, ridotto a 54 chili e spento in tutti i sensi, con una gran voglia di morire, ho incontrato un ragazzo di Nuovi Orizzonti. Questi giovani vivevano in quei giorni una missione di strada e avevano avuto il coraggio di passare la fenditura di un muro per entrare nell’inferno della cartiera. Quel ragazzo mi si avvicinò, accolse ed ascoltò il mio grido di dolore e poi mi disse: “Ciao, io sono Tommaso… sai, c’è una possibilità anche per te: è l’esperienza di Gesù quella che ti salva”.
Io, avevo sentito parlare di religione, ma avevo fatto l’esperienza del ‘cristianesimo’ attraverso i miei nonni che avevano buttato fuori mia madre quando si era messa con quel delinquente, e non li avevo più visti per tanti anni, quando forse erano le uniche persone che mi avrebbero potuto dare una mano; e nulla più.
Quindi sembra abbastanza innaturale che io, 54 chili, con la rabbia in corpo, scoppiassi a piangere in mezzo alla piazza di Verona, dove dovevo mantenere pure la mia immagine di persona che non si fa mettere i piedi in testa. Sono scoppiato a piangere e il giorno dopo sarei dovuto entrare in comunità a Nuovi Orizzonti. Era avvenuto come se qualcuno avesse girato la chiave di una macchina col motore spento da anni. Qualcosa si era messo in moto, una speranza che ci potesse essere amore e una possibilità con Dio anche per me. Tommaso mi propose di andare al musical di fine missione, ma quella stessa sera mi hanno arrestato: ero entrato in un bar per rubare una stecca di sigarette e mi avevano sbattuto in carcere.
È vero che esiste il demonio, è vero che nel momento in cui stiamo cercando di cambiare la nostra vita c’è qualcuno o qualcosa che prova ad ostacolarci. Bisogna essere anche un po’ vigili, perché a volte diamo colpe agli altri quando non riusciamo a fare questo salto di qualità, mentre basterebbe solo concentrarci su “chi” ci sta tendendo questo tranello, e allora forse non gli daremmo lo spazio che tante volte ha nella nostra vita.
Quindi, sono rientrato in carcere. Lì, essendo appunto cresciuto un po’ come la mascotte della tossicodipendenza, non me la passavo malissimo, non mi sono mai mancate le sigarette, il vino, il cibo, e prendevo liberamente alcune cose dalla farmacia. Ma quella volta era diverso, chiesi da subito di andare nella biblioteca a prendere la Bibbia: cercavo parole di salvezza.
Mi hanno poi dato gli arresti domiciliari in un appartamento e ho iniziato ad andare a cercare questa comunità spirituale (che mi ero dimenticato si chiamasse Nuovi Orizzonti): ho iniziato ad andare in tutti i servizi, al Sert, dagli assistenti sociali, dicendo di voler entrare in una comunità spirituale dove fare l’esperienza di Gesù.
Nel frattempo, mi è arrivato un ordine di carcerazione e mi hanno portato in caserma. Fortunatamente il comandante dei carabinieri era uno che a suo tempo aveva arrestato mio padre, quindi mi conosceva e mi ha dato dodici ore di tempo per trovare una comunità. Ho provato allora a chiamare tutte le comunità dove ero già stato, ma nessuno mi riprendeva perché insomma… ero un po’ un casino, uno di quelli che bollano come irrecuperabile. Quando sono riuscito a mettermi in contatto con la comunità Nuovi Orizzonti di Montevarchi, sono stato subito accettato e così ho deciso di andarci.
Prima di partire sono andato in una farmacia, ho rubato il sacchetto dell’immondizia, e la notte prima dell’ingresso in comunità sono andato nei casoni popolari di Trento a rubare i vestiti dagli stendini per avere due panni da portarmi.
Non ti sentirai mai più solo
La prima persona che ho incontrato in comunità è stato proprio Tommaso – all’epoca era responsabile del Centro di prima accoglienza di Roma -, che quel giorno stava portando della pasta al centro di Montevarchi. E per la seconda volta negli ultimi dieci anni sono scoppiato a piangere.
Sono entrato in comunità con una crisi d’astinenza terribile, ho passato trentuno notti senza chiudere occhio, vomitavo di continuo, e poi entravo in cappellina e mi mettevo seduto lì. Non sapevo pregare, ma me ne stavo lì.
Un giorno, stavano pregando e Loredana mi vide e mi chiese: “Ma come hai fatto a stare tutta la mattina qua in cappellina?”, e io le ho risposto che era l’unico posto in cui riuscivo a stare un po’ meglio. Qualche giorno dopo ci trovammo di nuovo insieme in cappellina; lei mi guardò e mi disse: “Mirko, se avrai la fortuna di fare l’esperienza di Dio, tu non ti sentirai mai più solo!”.
Per me la solitudine è stata una piaga forte e quest’esperienza detta da Loredana io l’ho fatta davvero negli anni.
Ho fatto casini anche a Nuovi Orizzonti. Non sono affatto un tipo facile, sono cocciuto, sono ferito…, però ho scoperto una cosa meravigliosa. Nessuno mi ha insegnato a vivere, quello che ho imparato me lo sono dovuto prendere con i denti in mezzo alla strada, con tanta rabbia che ancora, in parte, mi porto dentro; però quando ho finalmente iniziato a vivere il Vangelo, ho scoperto che là potevo imparare ad essere uomo.
L’Amore mi ha cambiato
Adesso ormai son passati tanti anni: oggi sono sposato con Alessandra e insieme siamo padre e madre non solo di tre meravigliosi figli, dono del Signore, ma lo siamo anche per tantissimi giovani che come me hanno vissuto diversi inferni. Siamo una Famiglia Nazareth, consacrati laici sposati con una famiglia aperta all’accoglienza: portiamo avanti, insieme ad altre famiglie come noi, ben tre centri in Trentino, uno per i ragazzi accolti da diverse dipendenze, uno per ragazze provenienti dall’Africa richiedenti asilo, uno di reinserimento sociale dove sono più presente, dedicandomi ad una impresa sociale che non solo dà lavoro ai giovani che terminano il programma terapeutico, ma li forma anche all’importanza del lavoro in uno stile evangelico. Poi ci occupiamo di tanta evangelizzazione nel Nord Italia.
Quello che mi ha cambiato è stato l’amore degli altri, la loro attenzione per me, ma soprattutto la meditazione della Parola ogni mattina in comunità. Per me è stato fondamentale imparare a leggere il Vangelo e provare a viverlo con tanta umiltà: perché questo Gesù è imitabile! Non ci ha mostrato una via che è per Lui e che con noi non c’entra niente: è una via che ognuno di noi può mettere in pratica e può imitare.
Nel Vangelo ho scoperto anche quanto sono un prodigio! È bello poter pensare che finalmente lo si può vivere in pienezza, nonostante i propri macelli: c’è una strada d’uscita! E quindi, ecco, camminiamo insieme vivendo il Vangelo… c’è una possibilità per tutti!